AVVIO PROCEDIMENTI PENALI - OCCORRE DARNE EVIDENZA ANCHE SE IL COMUNE È PICCOLO

LEGITTIMA LA SANZIONE DISCIPLINARE ALL’AVVOCATO DIPENDENTE COMUNALE CHE NON SI CANCELLA DALL’ALBO

L’ente locale non è tenuto a dimostrare il concreto pericolo connesso alla violazione dell’obbligo di comportamento perché già insito nell’opzione legislativa.

Sono queste le conclusioni raggiunte dalla Cassazione che ha accolto il ricorso di un Comune.
La corte d’appello, correggendo la motivazione del tribunale, aveva accolto il ricorso di un avvocato, dipendente dell’ente locale, volto a ottenere l’annullamento della sanzione disciplinare di sospensione dal servizio e dalla retribuzione per dieci giorni. La sanzione gli era stata inflitta per condotta contraria al codice di comportamento dei pubblici dipendenti, in quanto, diventato avvocato nel 1998 e iscrittosi all’albo, aveva mantenuto l’iscrizione anche dopo la scadenza del termine di trentasei mesi dall’entrata in vigore della legge 339/2003, violando in tal modo il regime di incompatibilità assoluta tra pubblico impiego ed esercizio della professione forense sancito dall’articolo 1 della stessa legge.

La corte d’appello ha motivato la decisione affermando che il contratto sulle autonomie locali puniva solo la violazione di obblighi di comportamento dai quali scaturiva “disservizio ovvero danno o pericolo all’ente”, non allegati né dimostrati dal Comune. La controversia è così approdata in Cassazione dove l’ente locale ha contestato la decisione perché, pur dando atto che il dipendente aveva violato il dovere di esclusività, mantenendo l’iscrizione all’Ordine degli avvocati dopo la scadenza del termine di trentasei mesi dall’entrata in vigore della legge 339/2003, aveva erroneamente ritenuto che ciò non bastasse a integrare l’illecito in difetto di prova dello «specifico disservizio ovvero danno o pericolo all’ente, agli utenti o ai terzi», profilo che non aveva rilevanza per la configurabilità dell’illecito ma solo sul piano della proporzionalità della sanzione. Il collegio, in sostanza, avrebbe assunto il disservizio al rango di elemento costitutivo dell’illecito disciplinare pur in presenza di una situazione di incompatibilità assoluta.

La Suprema corte, nell’accogliere il ricorso, ha affermato che l’incompatibilità è stata voluta dal legislatore al fine di evitare i rischi che derivano, anche per i possibili conflitti di interessi, dall’indebita commistione tra attività forense e pubblico impiego. Una regola, ha concluso la Cassazione, che si fonda su una valutazione legislativa, discrezionale ma non irrazionale, di maggior pericolosità ex se del connubio avvocatura-pubblico impiego per cui non è necessario dimostrare il concreto pericolo.
Di qui il rinvio alla corte d’appello per un nuovo esame della vicenda.

Corte di Cassazione, sezione lavoro, ordinanza n. 31776 del 15 novembre 2023

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